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casi umani

Faccio il Coach, aiuto gli altri a stare bene.
Ma gli altri non aiutano me. Da qualche tempo ho iniziato a non sopportarli più. E poi c’è l’articolo da consegnare mercoledì e io sono drenata: io e le mie manie di servire, neanche fossi Madre Teresa.

Ma oggi sono in vacanza. Porto con me gli appunti e mi stendo all’ombra sul pratone antistante il mio alloggio, un villaggio agricolo lungo la Costa degli Etruschi, in Toscana. L’articolo tra poco, ora 45 minuti di pausa ossigeno. Questo momento mi sembra perfetto: contemplo senza meta il cielo pulito e mi godo il contrasto con il verde; respiro l’odore dell’erba tagliata: solitudine e pace.

Sono le due del pomeriggio e ho concentrato ogni residuo di attenzione a stendere uno smalto blu sull’unghia del pollice destro. Di fronte al punto dove mi sono stesa a pancia in giù si biforca un sentiero ghiaioso, lungo il quale è stato collocato, sul prato, un grosso cartello in legno con la scritta “Percorso salute”; lì a fianco una panca inclinata, sempre realizzata in legno rossiccio.

Il mio sguardo sta palleggiando beato tra l’unghia e il pratone quando viene bruscamente interrotto dagli shorts in nylon fucsia di una donna sulla quarantina. Brutta cosa il fucsia, è un colore che mi fa schifo. E tra l’altro tende verso i rossi sicché ostacola il riposo: pessimo intruso in questo momento insomma, ma tant’è. La tizia ha occupato con uno scatto la panca inclinata e ha iniziato a sbuffare sotto il sole in modo ritmico, mentre si piega ripetutamente a squadra per allenare gli addominali scoperti. Conto 20 sbuffi, poi quiete, ma lei, non paga dell’affaccendamento fisico, mi guarda cercando un appiglio per occupare con me lo spazio dei secondi vuoti tra una serie e l’altra.

Sbircia gli appunti. “Ti occupi di coaching?”
Annuisco.
“E cosa fai esattamente?”. Riprende i piegamenti.
Penso a come defilarmi senza muovermi, e intanto sento la mia voce che risponde in automatico: “Non sono io che faccio. Accompagno persone, e sono loro che realizzano i cambiamenti che vogliono o devono”.
Nuova pausa ginnica e non c’è tregua: “Se sono loro che fanno, allora il coach è inutile. Stai dicendo questo?”
Vorrei darmi alla fuga ma fare leva con le mani sull’erba rovinerebbe lo smalto fresco, e inoltre detesto lasciare i lavori a metà e al momento mancano ancora sette dita. Mi tocca rispondere e il modo meno dispendioso è una bella frase fatta: “Il coach fornisce uno spazio adatto a fare passaggi”
“Passaggi??”
In momenti come questo vorrei tanto essere un fruttivendolo, un medico o un sarto. Anzi, proprio ora estetista sarebbe ancora più utile. E in ogni caso qualcosa dove il tuo lavoro è tanto evidente e ogni indagine tanto superflua da mettere lo scocciatore in grave imbarazzo per le sue inutili domande. Anzi, tanto da rendere inutili pure gli articoli. Mi sale una gran rabbia verso questa intervistatrice petulante. “Sì! Movimenti, vie, strade! Sono passaggi di crescita! Apprendimenti, scelte, cambiamenti positivi no?” Senza volerlo ho alzato la voce e non sono riuscita a trattenere del tutto un gesto stizzito, sicché ho urtato lo smalto che ora cola sull’erba disegnando una sottile arteria blu.

La mia aguzzina ha finito la quarta serie. Non ancora soddisfatta, scende dalla panca e invade lo spazio vicino a me. “Interessante” dice “e tu quale passaggio vorresti?”
Visualizzo la mia metamorfosi in crudele assassina, oppure rullo schiacciasassi ma mi sento in colpa. Inoffensiva lepre? Impossibile e comunque non posso dirglielo. Rinuncio alla lotta, emetto un enigmatico “Mah..” con sorriso pensoso. Trasformarmi in qualcuno in grado di sopportarla? Difficilissimo o comunque superiore alle mie forze.

Sto ultimando la pittura dell’indice sinistro e la mia sportiva carnefice gioca la mossa decisiva, forse è incuriosita dalla risposta ambigua oppure, più probabile, ha ormai intuito la mia impotenza e desidera portare all’apoteosi il suo gioco sadico. Si appoggia sull’erba, mi guarda come in attesa, ma tace. Oddio, e adesso?
Mi trovo a fare i conti con quel silenzio, disarmata, come di fronte a un sapiente negoziatore che ti costringe a fare la prima mossa. Soppeso le possibilità: non ho voglia di alzarmi. Resistere? Riempire il vuoto?
Ma lei sembra mossa a pietà e mi viene in aiuto: “Che stanchezza eh…”
Parla di sé? Oddio aiuto, mi parla di sé… Oppure parla di me? Disperata mi lancio in questa opzione e arriva la resa, lo dico:
“Sì! Sono esausta”.

Lei deve rimanere sorpresa da quell’improvvisa rivelazione perché si guarda il petto interdetta, il sudore che le è colato lungo il collo sulla canotta, pure lei fucsia, e torna a me tra lo speranzoso e l’impaurito:
” Che dici, sarà il caldo?”
D’improvviso la vedo, ci vedo: due sfigate piene di aspettative in una vacanza ristoratrice, lei affaccendata con le sue brame di rassodamento e io a sperare che mi venga una buona idea per chiudere il dannato articolo. Casi umani.

E mi scappa da ridere. Potrei ancora fermarmi e mantenere il contegno solo che la mia compagna di sventure incrocia ora il mio sguardo e pare avere lo stesso pensiero perché trattiene il riso pure lei. Ci sfugge: esplodiamo in una risata che non riusciamo più a controllare, perché si alimenta indisciplinata, e cresce da lei a me, da me a lei, e più ci proviamo e più ridiamo, prima note convulse, poi ritmica, e infine lacrime e musica, che risuona libera con tutto quello che c’è. Persino con noi.

Ho riappoggiato lo smalto, mi sono seduta a gambe incrociate e mi sento dire: “È che devo completare un articolo e c’è sempre qualcuno che si mette in mezzo, e io non riesco a trovare la concentrazione.”

Forse capisce: ” Tipo…qualcuno come me! Scusami, ti lascio in pace.”
“Ma va, mi sto mettendo lo smalto, sono io che mi distraggo.”
“E che cosa ti aiuterebbe?”
“Lo sapessi! Non viene mai come lo voglio, c’è sempre qualcosa di sbagliato”.
Ormai sono un fiume in piena:
“È come se fossi chiusa in una stanza e non riuscissi a vedere la porta”.
“Capisco. E quante porte ci sono?”
Una, certo che una! Quella giusta no? E poi quante porte vuoi che ci siano in una stanza? Ma quella domanda si insinua dentro di me e per qualche ragione le concedo uno spazio di possibilità:
“Boh?!” è l’illuminante risposta.

Ignoro la mia interlocutrice e mi stendo a pancia in su, braccio sinistro alla nuca e il destro piacevolmente allungato a stirarmi il busto, come faccio nel letto quando mi risveglio. É allora che lo vedo. La mia amica deve avere capito di non essere più utile perché è ferma, tutt’uno con i fili d’erba, e io adesso faccio tutto da sola.
Sto guardando lo spettacolare pino che mi fa ombra. Parte con un tronco irripetibile ma a metà strada si biforca e raddoppia, e poi ancora. Sì, perché ogni ramo non si basta e accoglie altri rami, e insieme diventano non una ma molte, moltissime possibili vie. Belle, brutte, giuste, sbagliate, perfette, imperfette? Che importa, ma osservo estasiata rami, germogli e aghi verdi e pigne e mi immergo nel sapore della resina profumata.

“Che meravigliosa forza questo albero” dico.
“Sì” fa qualcuna che si è sdraiata come me “una gran crescita”.

di Laura Ravanetti

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